Daniele, Marzo e Luglio 2011

Sono convinto che un viaggio duri più dei giorni segnati sulla carta: un viaggio vero ti trasforma, ti rimane dentro, e col cuore torni in quei posti a cercare di respirare la stessa aria, ad occhi chiusi ripensi al cielo stellato sulla tua testa, al sole sulla pelle, alle strette di mano, agli sguardi e ai sorrisi per molto tempo ancora.

Sono stati dei “viaggi veri” quelli che mi hanno portato, per due volte in un anno, nel villaggio di Hombolo, nella zona di Dodoma, nella poverissima Tanzania dove opera l’associazione C.L.U.P. e dove vive e lavora come volontaria Maria Carla Cappelletti.

Un’esperienza indimenticabile…

Indimenticabili i bambini che vogliono essere presi in braccio e coccolati perché nessuno a casa lo fa, indimenticabili i loro occhi impauriti quando allunghi la mano verso il loro viso per una carezza perché conoscono solo gli schiaffi; indimenticabili, ordinati e silenziosi durante la colazione e il pranzo che l’asilo dell’associazione gli offre, indimenticabile quando, arrivando all’asilo, tutti ti corrono incontro e fanno a gara per avere delle attenzioni, quasi buttandoti per terra, indimenticabile quanto delle semplici bolle di sapone possano farli felici.

Indimenticabile l’espressione di Karols (il bambino che ho adottato) quando gli ho regalato un pallone e delle macchinine, indimenticabili il suo sorriso e i suoi occhi attenti e curiosi mentre mi sfiora la pelle bianca del viso e la barba; indimenticabile quando, tenendolo in braccio, allontana gli altri bambini per avermi tutto per sé.

Indimenticabile lo sguardo, implorante prima e pieno di riconoscenza poi, delle persone aiutate da Maria Carla in ambulatorio e durante la vita di tutti i giorni, indimenticabili i pianti strazianti dei bambini malati, feriti ed ustionati.

Indimenticabile e ammirevole il coraggio di Maria Carla.

Indimenticabile la situazione di Hombolo, difficile da descrivere sia perché non saprei da che parte cominciare sia perché sono convinto che solo vivere a contatto con questa gente e con i loro problemi, anche solo per poche settimane come ho fatto io, possa farci avere davvero l’idea di una condizione che a noi risulta inimmaginabile.

Indimenticabile una realtà in cui le parole che usa la televisione, con le sue pubblicità, per impietosire lo spettatore, assumono un significato diverso, tangibile e terrificante.

Povertà, infatti, vuol dire vivere in case di fango, dormire per terra, senza elettricità, senza acqua, senza un bagno, insomma, non avere niente di quello che noi consideriamo il minimo per avere una dignità.

Malnutrizione significa mangiare, se il raccolto lo permette, una volta al giorno e sempre la solita polenta bianca accompagnata da erbe spontanee.

Acqua significa percorrere chilometri con un secchio in testa per raggiungere il pozzo più vicino.

Essere bambini vuol dire lavorare i campi e pascolare gli animali già da piccolissimi, raccogliere la legna per cucinare, fare da madre ai fratelli più piccoli, non ricevere mai una carezza, giocare con quello che la natura ti offre, sognare un pallone o una bambola che probabilmente non arriveranno mai.

Essere donna significa non avere considerazione, accudire i figli di uomini che magari neanche contribuiscono al mantenimento della famiglia, essere picchiate da questi uomini e, a volte, anche morire per questo.

Morte significa convivere con la perdita di figli, genitori, persone care per malattie come l’Aids, la malaria, la diarrea, la malnutrizione, per la mancanza di strutture e medicinali che comunque non potresti permetterti.

Istruzione significa stare in classi di cinquanta, cento bambini, senza libri o quaderni e con maestri senza una formazione adeguata che usano ancora il bastone e le punizioni corporali se sbagli.

Ecco, forse bisognerebbe partire proprio da qui, dall’istruzione, dall’insegnare ai bambini che la violenza non insegna, e allora forse non ci saranno più donne che muoiono perché i mariti le picchiano; dall’insegnare alle persone che hanno una dignità e che devono avere dei diritti fondamentali, che devono essere ascoltati.

È proprio questo quello che si propone di fare l’associazione C.L.U.P., acronimo di “Cultura e Lavoro, Una Presenza”: partendo dalla scuola dell’infanzia (il primo progetto realizzato insieme a un pozzo, un mulino e un frantoio) e con le adozioni a distanza cerca di garantire un’educazione adeguata a questi bambini, futuri uomini e donne dal quale dipende il futuro dell’Africa.

Credo sia proprio questo il significato della frase di Pierino, giovane tanzaniano di Iringa, molto intelligente, durante una chiacchierata, una sera, con me e alcune ragazze italiane, e con cui voglio terminare:

“Voi bianchi siete importantissimi per noi perché ci amate più di quanto amiamo noi stessi. L’aiuto più grande che potete darci, che potete dare agli africani, è insegnarci ad amare”